INTRODUZIONE
LE PAROLE DI IERI PER LA PSICOPATOLOGIA DI OGGI
A partire dagli ultimi anni del XVIII secolo e per tutto il XIX secolo l’interesse per le scienze della natura ha avuto un risveglio di grande portata. Da una parte la corrente filosofica del positivismo ne forniva la base ideologica, dall’altra i viaggi, le spedizioni scientifiche, che andavano di pari passo con la colonizzazione, offrivano l’occasione per nuove osservazioni. Si affermò lo studio minuzioso della natura, vuoi in campo geografico e geologico, vuoi in campo zoologico e botanico, vuoi in tanti altri settori. Le spedizioni scientifiche imbarcavano naturalisti appassionati, in cerca di nuove scoperte e nuove prospettive. Si compirono spedizioni memorabili, tra cui mi piace ricordare la crociera del brigantino Beagle, comandato da Robert FitzRoy (egli stesso naturalista e proto-meteorologo) che portava il giovane Charles Darwin. In tutto questo fiorire di interessi, di descrizioni minuziose e accuratissime di nuovi reperti, di relazioni scientifiche che divulgavano le recenti scoperte, anche la medicina accelerò il suo passaggio verso le scienze della natura. La dissezione sistematica dei cadaveri dei malati, che prese il nome di anatomia patologica, la scoperta dei microbi (inizio della microbiologia), insieme a tante altre scoperte di rilievo dettero uno statuto più “scientifico” alla disciplina. Anche la psichiatria non si sottrasse a questa tendenza. Dopo che i “liberatori” della follia (Pinel in Francia, Chiarugi a Firenze, Tuke in Gran Bretagna i più noti) avevano riportato l’origine della follia ad una malattia e quindi restituito una certa dignità, anche umana, ai pazzi, anche la follia si rivelò un campo fecondo per l’osservazione naturalistica. Nacquero nell’Ottocento le prime descrizioni fatte con carattere scientifico[1] dei casi tipici, dei diversi modi di esprimersi della follia. Fin dall’inizio si trattava di osservazioni acute, brillanti, figlie dell’abilità descrittiva propria del secolo, che si stava imponendo in tutti gli altri campi dello studio naturalistico. Esse erano in grado di evidenziare i punti salienti del malessere, di fondere in una mirabile sintesi i comportamenti e i vissuti, l’esordio e l’evoluzione. Le descrizioni di Griesenger, di Baillarger, di Kalhbaum, di Falret erano così aderenti alla realtà clinica, così evocative, da incontrare l’accordo degli altri clinici e far parte così di un patrimonio comune accettato. Le diagnosi venivano fatte quindi sulla base delle somiglianze che il caso da diagnosticare aveva con il caso tipico descritto nei testi scientifici.
Dalla definizione di questi “oggetti del sapere medico” si originarono due necessità: da una parte si sviluppò un interesse verso lo studio di quei fenomeni psicopatologici che certi gruppi di malati condividevano, anche al di fuori della loro diagnosi specifica. Il delirio, le allucinazioni, le alterazioni della coscienza, l’angoscia, eccetera vennero studiate in un contesto extradiagnostico, come fatti sovraordinati. Così, come in medicina la Patologia Generale studia i meccanismi generali dell’infiammazione, dell’immunità, dei tumori, eccetera, per la Psichiatria si sviluppò la Psicopatologia Generale. Questa cercava di individuare, descrivere e, possibilmente, comprendere i singoli costituenti delle malattie mentali. Il grande merito di questo approccio è stato non quello di arrivare a scoperte eclatanti, che di fatto mai si avverarono, bensì quello di addestrare i clinici a una semeiotica fine, ragionata, capace di individuare nella patologia del paziente elementi non immediatamente espliciti, e nello stesso tempo di fornire criteri per diagnosi (e diagnosi differenziali) basate su osservazioni più raffinate. L’altra esigenza che si originò dalla scoperta di questi nuovi oggetti (cioè malattie mentali specifiche) era studiare in che rapporto esse stanno tra loro. la sistematizzazione di questo campo del sapere si espica nelle classificazioni
In psichiatria le prime classificazioni erano fatte secondo un criterio soggettivo, empirico, valorizzando ora un criterio, ora un altro, senza elementi sostanziali di coerenza. Emil Kraepelin, riconosciuto come il padre della classificazione delle malattie mentali, in realtà non aveva creato un vero sistematico impianto classificatorio; si era limitato a distinguere malattie endogene ed esogene e a dividere le psicosi in due grandi gruppi a seconda del decorso. La classificazione kraepeliniana non fu mai davvero unanimemente accettata (Kraepelin stesso la cambia disinvoltamente nel corso delle otto edizioni del suo trattato, pur mantenendo il principio delle due psicosi endogene): da una parte c’erano i fautori della terza psicosi (Kleist e Leonhard in primo luogo), che proponevano un modello sostanzialmente diverso, dall’altra modelli interpretativi personali della classificazione.
Binswanger e Siemerling (1918. 1927) organizzano la parte clinica del loro trattato in: a) Mania e Melancolia, b) forme periodiche e circolari, c) stati di esaurimento nervoso, d) paranoia, e) deliri, f) amenza, g) psicopatie costituzionali, h) imbecillità e idiozia, i) psicosi tireogene, l) processi schizofrenici. Un manuale di rilievo, caposaldo della psichiatria francese ( Ey e collaboratori (1959), distingue come primo criterio di divisione le malattie mentali acute (I reazioni nevrotiche acute II crisi di mania, III crisi di melancolia, IV psicosi maniaco-depressiva, V psicosi deliranti acute, VI psicosi confusionali, VII epilessie), dalle mentali croniche (I perversioni e tossicomania, II generalità su nevrosi, III nevrosi d’angoscia, IV nevrosi fobica, V isteria, VI nevrosi ossessiva, VII deliri cronici, VIII psicosi schizofreniche, IX demenza, X Oligofrenie).
Weitbrecht, ancora nel 1963, nel capitolo “le psicosi endogene” inserisce a) le forme depressive e maniacali, b) le forme schizofreniche e c) le “psicosi endogene non comprese nel raggruppamento ‘classico’ (…) tra cui “Classificazione delle psicosi secondo Kleist e Leonhard”, riproponendo ancora la possibilità della terza psicosi. Anche l’americano Kolb (1979), nel suo manuale, elenca una terza psicosi: le Psicosi schizofreniche, le Psicosi affettive, le Psicosi paranoidee.
Comunque, pur con una certa disomogeneità, i testi di psichiatria sono andati via via a uniformarsi nelle due distinzioni classiche, nevrosi-psicosi e, tra le seconde, psicosi maniaco-depressiva versus schizofrenia (paradigmatici Bini e Bazzi (1966): Parte prima: Abnormi psichici (nevrotici e psicopatici), parte seconda: Psicosi endogene (schizofrenia e distimia).
Questa impostazione viene adottata nella classificazione internazionale delle malattie mentali (ICD-8), a cui si rifà la seconda classificazione dell’Associazione Psichiatrica Americana (DSM II).
Tra la fine degli anni Cinquanta del Novecento e il 1980 si assiste ad un rinnovamento epocale della struttura della psichiatria. La scoperta dei primi farmaci efficaci nei disturbi psichici, la successiva contestazione alla disciplina stessa (l’antipsichiatria), la de-istituzionalizzazione (brusca da noi con la legge 180/1978, più graduale negli altri paesi), la nascita di psicoterapie più accessibili rispetto alla psicoanalisi, hanno mutato in maniera fondamentale l’oggetto della psichiatria, non più limitato ai soli ricoverati nei manicomi, ma fatta in larga misura di casistiche ambulatoriali.
L’allargamento del campo di studio, il maggior peso, anche economico, della disciplina, i concomitanti cambiamenti del mondo medico hanno quindi reso necessaria una rivisitazione dei modelli psicopatologici, diventati inadeguati per esigenze degli studi scientifici. Sono nate le prime scale di valutazione, i protocolli standardizzati, le prime diagnosi basate su criteri riproducibili e, infine, come logica conseguenza, un intero sistema diagnostico “operazionale”, cioè, costituito da criteri precisi e riproducibili: la terza edizione del Manuale Diagnostico Statistico dell’Associazione Psichiatrica Americana, il DSM III del 1980. Con il DSM III inizia un nuovo capitolo della psichiatria, che ci conduce direttamente ai giorni nostri. La classificazione “kraepeliniana” viene ufficialmente accettata (in realtà con molti distinguo e allontanamenti).
Vengono stabiliti dei criteri univoci per fare diagnosi, nelle edizioni successive si amplia sempre più il campo della psichiatria, si definiscono meglio le patologie, si inseriscono glossari. Il mondo psichiatrico è pienamente conquistato, anche l’ostico pregiudizio degli europei viene meno e perfino l’ultima classificazione internazionale (ICD-11) si uniforma al DSM 5, pur con un flebile tentativo di mantenere la descrizione basata sulla descrizione del prototipo.
Mentre il DSM III era nato per rispondere all’esigenza di arrivare a una buona riproducibilità del procedimento diagnostico (inizialmente era stato concepito per la ricerca), il suo grande successo, ampliato dalle edizioni successive, lo ha reso di fatto un manuale, un libro di testo, una narrazione scritta e codificata dei fatti clinici. Nella quinta edizione, con testo rivisto, del 2022 (DSM-5 TR) il testo di accompagnamento sovrasta nettamente i criteri diagnostici, e non fa mistero di volersi proporre come il testo base, non solo diagnostico, della psicopatologia mondiale.
Quasi tutti i manuali di psichiatria o di psicologia clinica editi dopo il DSM III usano come indice organizzativo il sistema diagnostico in voga al momento e uniformano la descrizione della clinica alle classificazioni dell’ultimo DSM uscito prima della pubblicazione del manuale. Descrivono poi le malattie psichiatriche sulla base dei criteri diagnostici, ipotizzando la uguaglianza tra sintomatologia clinica e criteri diagnostici. In altre parole: a) in un insieme sindromico si identificano prima gli aspetti più rappresentativi e discriminanti nei confronti di altri disturbi; b) si costruiscono i criteri specifici per quel disturbo; c) da quel momento i criteri costituiscono la descrizione del disturbo, che resta imprigionato nella sua stessa gabbia. Dai casi clinici più rappresentativi, espressi in forma narrativa, vengono estratti dei criteri che a loro volta divengono la descrizione rigida e assoluta, di quella patologia.
Il fatto che il passo iniziale sia rappresentato sostanzialmente da definizioni e raggruppamenti condivisi, ma arbitrari, raramente supportati da evidenze di qualche tipo, ignorato. Si ritiene che il disturbo sia proprio come viene descritto nel manuale diagnostico, le sfumature, le incertezze, i passaggi progressivi da una forma all’altra si perdono nella reificazione e nella schematizzazione. Le convenzioni, i compromessi, le indeterminazioni, che pure erano alla base della scelta dei criteri, svaniscono nella solidità e stabilità dei criteri stessi. Non è più la malattia che si esprime attraverso i suoi sintomi, ma sono i criteri diagnostici a costringere la malattia in confini predefiniti. Il diagnosta che si basa sul DSM prima ha in mente i criteri diagnostici, e dopo va a verificarne la presenza nel paziente. Una elencazione di sintomi sostituisce la narrazione del paziente, lo inquadra in una casella predefinita, lo spoglia di ogni individualità. Si costituisce una vera e propria inversione del procedimento diagnostico: qui è la scatola che caratterizza il contenuto.
Dalla narrazione psicopatologica del divenire, del fluttuare della vita psichica, della concatenazione dei sintomi, della comprensione dei vissuti, in una parola di una diagnosi basata sull’individuo, si passa ad un procedimento in cui la persona deve paradossalmente adattarsi per rientrare in una casella prestabilita. Quando questo adattamento non riesce bene e il malato mal si conforma ai criteri, è comune quello che è stato definito l’errore di Procuste, che consiste nel modificare inconsapevolmente le caratteristiche del paziente al fine di farlo corrispondere ai criteri. Si tende a credere che il disturbo sia quello rappresentato dai criteri. Si tratta del tipico esempio di reificazione: da un’idea si fa una cosa.
Ho sotto gli occhi due edizioni diverse di un classico Manuale di Psichiatria, quello di Giberti e Rossi. La prima edizione, del 1972, edita da Vallardi, è quella su cui ho studiato quando ero specializzando. È organizzata secondo lo schema classico: …sindromi schizofreniche, sindromi distimiche, sindromi psiconeurotiche,…eccetera. Nel capitolo sulle sindromi distimiche[2], per fare un esempio, Franco Giberti descrive le sindromi distimiche endogene, le sindromi distimiche del periodo involutivo, le depressioni neurotico reattive, di ognuna di queste descrivendo le diverse presentazioni (melanconia agitata, depressione logorroica, depressione d’autoaccusa, eccetera). La sesta edizione del 2007 (editore Piccin)[3] adotta l’impostazione del DSM IV-TR. Nel capitolo disturbi dell’umore, redatto da Gabrielli, si parla di Episodio Depressivo Maggiore, descritto seguendo il DSM e illustrandone i criteri uno per uno. La stessa cosa si ritrova, nel classico manuale americano di Kaplan e Saddock nel confronto tra le prime edizioni (1972, 1976, allora Freedom, Kaplan e Saddock) e l’edizione del 1992. A onor del vero, non tutti i manuali degli ultimi 30-40 anni sono così: esiste un gradiente in cui pochissimi continuano a privilegiare l’impostazione clinico descrittiva, pur citando i criteri. Molti ripetono i criteri del quarto o quinto DSM, ma in un impianto narrativo, altri ancora si limitano a elencare i criteri come se corrispondessero esattamente alla descrizione clinica. Resta comunque sempre evidente il fenomeno, già accennato, per cui dalla descrizione dei pazienti si creano i criteri diagnostici, che successivamente vengono adoperati per descrivere un paziente ormai cristallizzato in uno schema predefinito.
Ora, a costo di essere ripetitivo, riepilogo il procedimento: (a) prendo le principali descrizioni narrative della depressione, (b) ne individuo gli aspetti (i sintomi) che hanno in comune, (c) costruisco dei criteri diagnostici sulla base di quei criteri. E fin qui tutto bene, anche se ciò è (volutamente) riduttivo. Poi viene l’abnormità: (d) i criteri divengono essi stessi la descrizione prototipica del paziente! Ma non è mai esistito quel paziente
Come esprimono bene Rossi Monti e Stanghellini (1999) “Nel raffigurarsi l’immagine di una data sindrome, ciascuno si orienta a partire da alcuni casi paradigmatici, assai più che fare riferimento a liste di criteri diagnostici […] Il processo diagnostico è assai più prossimo a una tipizzazione che si compie sulla base di una apprensione globale — olistica — del caso osservato, che al sistematico riconoscimento di singoli aspetti la cui somma porta alla conclusione diagnostica (Cooper, 1983). Inoltre, questa apprensione globale fa riferimento a tipi idealizzati a partire da osservazioni particolarmente pregnanti e significative — una specie di imprinting che si compie sulla base del caso che più si imprime nella mente in quanto esemplare. D’altra parte, non si può ignorare che ciascun paziente, come un prisma, rifrange in particolar modo un determinato aspetto della sintomatologia che globalmente caratterizza una data sindrome.” Vent’anni dopo lo stesso Stanghellini, con Abate Daga e Ricca (2020) osserva che “un’altra conseguenza negativa del nosografismo è che molti giovani psichiatri, addestrati a concepire i criteri diagnostici come rappresentativi dell’intera condizione disordinata dei pazienti, potrebbero considerare i criteri operativi come “tutto ciò di cui hai bisogno di sapere” su quella condizione. Il nosografismo potrebbe così aprire la strada a una “psichiatria semplificata” e al suo impoverimento”.
Come dice Gøsta Esping-Andersen, “Il limite principale di ogni classificazione sta nella sua staticità. Una tipologia è una fotografia del mondo in un particolare punto del tempo – è difficile che colga le mutazioni dei vecchi raggruppamenti o la nascita di tipi nuovi. Il suo destino è essere superata dalla storia.“
Questo è l’andamento storico della conoscenza. Se però l’oggetto della conoscenza è imprigionato, congelato nella sua definizione a priori, costretto a conformarsi ai criteri, allora vengono a mancare la flessibilità e la mutevolezza necessarie per i cambiamenti.
In questo volume si è cercato di integrare le descrizioni precedenti la psichiatria dei criteri operazionale (psichiatria operazionale) con le concezioni moderne delle diagnosi. Da una parte le narrazioni ricche, profonde, di straordinaria intensità comunicativa, descrizioni fluide, cangianti, resoconti di tipo cinematografico, film invece di fotografie, di giganti della psichiatria pre-DSM III, dall’altra la riproducibilità, l’obiettività, la sicurezza delle diagnosi operazionali. Il concetto fondamentale è che si possono derivare le diagnosi DSM-5 o ICD-11 dai casi di Kraepelin o di Weitbrecht, ma non è possibile risalire a Kraepelin o a Weitbrecht da DSM-5 o ICD-11. Ho quindi tentato di riproporre la diagnosi psicopatologica secondo criteri meno usuali rispetto ai trattati classici, ma non facilmente ritrovabili nella letteratura specialistica contemporanea. L’obiettivo principale è quello di riportare i giovani professionisti del settore, siano essi psichiatri o psicologi clinici, ad una conoscenza psicopatologica tradizionale.
All’occorrenza, i fenomeni psicopatologici che sono considerati più nucleari, tipici, vengono riportati e descritti indipendentemente dal contesto diagnostico, ribadendo il concetto che prima vengono i fatti (i fenomeni clinici e psicopatologici) e dopo le classificazioni. Si è cercato di evitare le interpretazioni filosofico-esistenziali, talvolta un po’ astruse, della psicopatologia fenomenologica tradizionale, così come non ci si è voluti addentrare nei meandri delle pur ricche considerazioni psicoanalitiche o cognitiviste. Si è cercato di dare un’informazione stabile, non eccessivamente variabile, riportando quelle descrizioni, fatte anche cento anni fa, che ancora oggi sono moderne e attuali. I casi non più attuali, come per esempio l’amenza, sono stati omessi, come pure le forme pesantemente condizionate dall’ambiente manicomiale. Gli argomenti (i capitoli) sono suddivisi in maniera empirica, sulla base dei modelli e prototipi clinici e psicopatologici salienti, evitando le usuali suddivisioni della psicopatologia (disturbi della percezione, della coscienza, del pensiero, …). Si è ovviamente evitato seguire una suddivisione rigidamente basata sulle diagnosi, come detto, mutevoli nel tempo, mentre i quadri psicopatologici tendono ad essere più stabili. Per lo stesso motivo ho volutamente evitato di trattare gli aspetti terapeutici (che si modificano nel tempo) e le interpretazioni eziopatogenetiche (allo stato attuale per lo più inconcludenti). Si è cercato invece di evidenziare gli elementi clinicamente rilevanti, utili al rilevamento diagnostico, al contatto con il paziente e alla sua comprensione e in ultima analisi funzionali alla diagnosi, qualsiasi sistema diagnostico si voglia usare. Insieme agli elementi più “classici” della psicopatologia generale ho messo qualche considerazione più semplice, al limite del banale, per semplificare certi concetti.
[1] Senza confondere osservazione e interpretazione
[2] Distimico: qui Distimia è usato nell’accezione classica, etimologica, di disturbo dell’umore. Diventerà sinonimo di depressione lieve cronica solo dal DSM III in poi (v. glossario)
[3] Posseggo queste due edizioni. Non ho verificato le edizioni intermedie, né sono a conoscenza se esistano edizioni successive
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